martedì 17 novembre 2015

Il più grande tanguero della Pampa... e altre storie

Francesco Scarrone, Di lama e d'ocarina, Gorilla Sapiens Edizioni
Francesco Scarrone non balla il tango, eppure ha scritto un libro bellissimo di storie di tango. Sto parlando di Di lama e d’ocarina, Gorilla Sapiens Edizioni, che per un periodo ha rischiato di chiamarsi come questo blog ma poi per fortuna (così non ho dovuto uccidere nessuno) ha trovato un titolo ben più poetico.
Come capita spesso, il tango è metafora di un viaggio interiore: Di lama e d’ocarina è un racconto di formazione, il primo dei 13 che compongono la raccolta e raccontano tutte le sfumature e le emozioni di questo ballo, il più lungo e ironico.
Quando ho scoperto questo libro, un paio di anni fa, me ne sono innamorata, e ho "perseguitato" Francesco su Facebook, tanto che mi ha concesso questa lunga e interessantissima intervista, con lo stile brillante che si ritrova anche nel suo libro.
Giornalista, scrittore e sceneggiatore, classe 1977, due figli piccoli da mantenere a pannolini, vive in Francia ("in Francia. Mica a Parigi"), odia i social network e cerca un modo per vivere scrivendo cose serie, tipo libri o sceneggiature, altro che blog e post e cagatelle per l'internet.
Che dite, siete pronti, cominciamo?



Francesco, parlaci di te come se fossi il protagonista di un tango. Chi sei, cosa fai e per chi ti struggi?

Sono piemontese. Per definizione, quindi, non posso essere passionale. Cionondimeno ho le mie piccole fisse. Innanzitutto mi struggo per i miei due figli, Anita e Raffaele (un mese lui, due anni lei); se mi lasciassero mi getterei da una scogliera a picco sul mare contro un rosso tramonto che sbava verso occidente come fa il sole quando i figli ti lasciano.
Poi ci sono i miei libri. Ho crisi isteriche quando uno viene spostato dalla sua tana. Posso uccidere quando mi ci fanno le orecchiette a mo’ di segnalibro e affrontare qualcuno col coltello se ripiega la copertina. Non prendo neanche in considerazione il fatto che il libro mi venga sottratto fraudolentemente. Lì, come diceva Pasolini, “pe’ tojerme ’na soddisfazione me faccio pure trent’anni de Reggina Celi”. Stesso è per i dischi e i film.
Mia madre, che fa la cartomante, dice che sono saturniano, quindi che le vecchie cose hanno una grande importanza per me. E in effetti è vero. Credo che si rifletta anche nella mia scrittura. Vecchio stile, vecchie storie, vecchi fantasmi del passato che tornano e ritornano, come nella Stanza dei passi perduti. E credo che anche la tematica di questo mio libro, il tango stesso, quello classico e storico di Gardel, Pugliese e compagnia, siano sintomatici di un attaccamento a un mondo del passato.
Ecco, credo quindi che la nostalgia sia un elemento molto tanguero e molto presente nei miei testi. Almeno in quelli di Di lama e d’ocarina.

Francesco Scarrone, autore di Di lama e d'ocarina
Francesco Scarrone, foto di Patricia


Qual è il tuo rapporto con “il mondo del tango”?

Il mondo del tango. Perchè il tango è un mondo, l’ho incontrato per caso quando lavoravo come giornalista per una piccola testata locale. Ed è stato amore. Non lo ballo. Non saprei ballare neppure il ballo del qua qua, ma in quanto osservatore esterno ho avuto un colpo di fulmine. Quante storie che si nascondono in quella musica già ricca di immagini. E poi c’è il campionario immaginifico che ci arriva da oltreoceano. Senza considerare il ballo. Ah, il ballo del tango. Occhi chiusi, un piccolo sospiro e poi è fiducia data, tolta, restituita. E la fiducia è tutto nella vita.

Da dove ti viene l’ispirazione per questo libro? 

L’ispirazione è nata in una notte di molti anni fa. Ricordo ancora la sala della società operaia di Mondovì, una bellissima sala retrò, con un palchetto tra il liberty e l’avanspettacolo belle epoque, e su quello sfondo le coppie che ballavano sul suono di qualche tango classico. Mi sono innamorato di quelle coppie e così ho fatto quello che fanno gli innamorati: ho scritto una lettera d’amore. Una lunga lettera d’amore che è questo libro. Senza rinunciare all’ironia e alla comincità, ma non si può scrivere senza amare. E credo si senta, almeno una punta di questo amore amaro chiamato tango.
Poi c’è il retroscena: i Mamagrè, un trio di tango che in realtà sono in quattro, avevano bisogno di testi molto corti da portare in teatro durante i loro concerti per coprire i tempi morti tra un brano e l’altro. Ed ecco come sono nati i brevi, talvolta brevissimi, racconti della seconda parte del libro. Sono stati creati per esere recitati, letti ad alta voce da attori. Per questo c’è una ricerca sonora che si adagia sulla musicalità delle parole e delle frasi.
Abbiamo tradotto il libro in francese recentemente ed è impressionante ritrovarsi, dopo anni, a rianalizzare ciò che avevo scritto e rendermi conto del lavoro folle a livello linguistico che avevo fatto e che una traduzione ha forzatamente riportato a galla. Per questo è consigliabile leggere questi testi ad alta voce. Magari uno al giorno, come si farebbe per una poesia. Credo che perdano molto se letti in filotto senza soffermarsi a gustarne l’aroma.

“Il tango è un modo di vivere”: è anche il tuo?

Dio, per fortuna no. Il rischio di scrivere un libro come Di lama e d’ocarina è che poi la gente pensa che tu sia un gran tanguero, invece sono solo un piccolo tanghero.
Sono uno scrittore e in quanto tale affronto temi diversi, situazioni diverse. In questo caso è stato il tango, ma avrebbe potuto essere la mozzarella di bufala. Il film di cui ho scritto la sceneggiatura (The Repairman) parla di tutt’altro, e il romanzo a cui sto lavorando in questo periodo, di tutt’altro ancora. Restano comunque dei temi comuni, un’attenzione sempre verso gli ultimi, per esempio. Insomma, una sensibilità che è la mia, idee di fondo che sono le mie, ma poi queste sono ricamate su situazioni diverse.
Non posso dire che il tango non mi abbia affascinato, ma è come pensare che Umberto Eco volesse farsi frate dopo aver scritto Il nome della rosa. Senza paragonarmi a Umberto Eco, chiaro. E comunque non ho nemmeno pensato di farmi frate.

Diego Alvaro de Marenquio Manasero y Gregorio comincia come un don Chisciotte del tango: innanzitutto non è di Buenos Aires, ma di un posto sperduto nella Pampa, e poi è tutto il contrario del tanguero tipo, macho e sicuro di sé, con una rosa in bocca e mille donne ai suoi piedi. Come è nato questo personaggio?

L’idea di base era di lavorare sui temi tipici del tango in maniera dissacrante dopo aver passato mesi a struggermi sui brani seri; mi sembrava una bella compensazione, un trapasso comico così mi risollevava il morale.
Il tipo di umorismo usato si inscrive in quello classico di alcuni piccoli capolavori della letteratura come Tartarino di Tarascona di Alphonse Daudet, Pian della tortilla di Steinbeck o La miseria in bocca di Flann O’Brien. Un divertissment nel quale la tragedia sia contemperata dal ridicolo e il comico bilanciato dal dramma. Il personaggio è figlio di questo. Non che abbia creato prima il personaggio e poi la storia; è stato più o meno un crearsi a vicenda. Col senno di poi questo brano l’avrei potuto sviluppare di più e fare un po’ più lungo. Ma forse la sua incisività sta anche nella brevità, e il comico rischia alla lunga di stufare. Meglio quindi che la gente finisca dicendo Accidenti è già finito, peccato, piuttosto Che palle, ma quando finisce?

Desbotada, di Eduardo Amorim, su licenza CC BY

Radici di vento: ecco, questa è una storia degna di un tango! Dove il tango non viene nemmeno nominato, ma pervasa di dolore e vendetta. Ce ne parli?

Ho pensato che il tango, le canzoni del tango, raramente parlano di tango. Non sono autoreferenziali, ma cantano di altre cose. Quindi ho cercato, in molti brani, di non citare direttamente il tango ma di farlo vivere in un’atmosfera. In questo caso sono partito da un brano che era stato scritto per un altro progetto; si trattava di un monologo su Medusa, la gorgone che trasforma gli uomini in pietra con lo sguardo. Nel mio brano finiva per trasformare in pietra l’uomo che aveva amato. Un po’ la difficoltà di tenere in vita l’amore, se vogliamo, senza trasformarlo in statua, senza calcificarlo. Ma insomma, questo era un altro testo. Ciò non toglie che partendo da quello, comunque, ho elaborato la figura di questa strega, questa guaritrice millenaria ma bellissima che vive ai margini del deserto. Un tema che potrebbe essere quasi marqueziano, un po’ realismo magico, se vogliamo. Lì è stato inserito un personaggio di un marinaio di sventura, una sorta di Corto Maltese (che, non a caso, ha un albo dedicato al tango) e la trama è diventata quella di una vendetta consumata in maniera strana. Far innamorare la strega vuol dire toglierle l’eternità, e senza eternità, la morte arriva lenta, la vecchiaia; la peggiore vendetta che si possa immaginare per la bellezza è vederla sfiorire.
Insomma, ci sono molti elementi che, ad analizzare il testo, vengono fuori come una sorgente dalla roccia. È stato un brano vittima di molte influenze, pestate in un mortaio e rielaborate alla mia maniera, chiaramente. Inoltre queste sono spiegazioni che do adesso, è ovvio che nel momento della scrittura tutto ciò è latente, non ti rendi conto di andare a pescare in un immaginario: lo fai e basta.

Milonga per un povero diavolo è quasi un copione. Di lama e d’ocarina è anche uno spettacolo teatrale. Ci racconti il tuo rapporto col teatro? 

Verissimo. Avevo scritto parecchi monologhi che in teatro erano recitati ora da un attore maschio (all’epoca erano Fabio Marchisio o Marco Lorenzi) o femmina (Marlen Pizzo poi affiancata da Elena Griseri). Avevo quindi voluto buttare giù uno o due brani nei quali i due attori, al posto di alternarsi, lavorassero insieme. Un dialogo, in pratica. Ecco la genesi di questa Storia di un povero diavolo.
Poi, visto che sono sempre stato affascinato dai perdenti, mi pareva giusto attribuire a questo Povero diavolo un amore bruciato. E qual è l’amore che ha bruciato Lucifero se non quello per Dio, e che dolore dev’esserci nel non poter più incrociare lo sguardo di chi hai amato. Spesso amore e odio vanno insieme.
Ma parlando del teatro più in generale, è da lì che io sono partito. Con una cricca di amici per cui scrivevo che sono poi entrati nella scuola del Teatro Stabile di Torino. Di qui le amicizie si allargano. Sono arrivate delle piccole grandi soddisfazioni, come l’Ecuba che ho scritto per Franca Nuti, una delle divinità del teatro italiano. Era attrice di Strehler al Piccolo di Milano. Poi dal teatro è arrivato il cinema. E, insomma, cerco di far convivere i tre nella mia scrittura. Francamente oggigiorno, vivendo all’estero, mi è molto più difficile rimanere a contatto con l’ambiente teatrale. Sono dunque un po’ di anni che faccio poco o niente per la scena.
Se non ti dedichi molto a mantenere i contatti è difficile rimanere in scia col teatro, che essendo composto di performance live richiede una presenza costante. Il cinema è più facile, per quello: ti fai vedere una volta ogni tanto e finisce lì.
Senza considerare il problema enorme dei fondi riservati al teatro, sempre più rosicchiati. Per le compagnie medio-piccole è praticamente la morte. Per andare avanti ci si deve infilare nelle grosse macchine, ma per fare questo, come prima, bisogna avere tempo a disposizione e voglia. Mi mancano entrambi. Sopratutto la voglia.

Mamagrè, foto di Debora Bassano


Spina nel cuore è il racconto di una donna tradita. Facciamo un gioco: e se quello tradito fosse stato un uomo?

Eh, con tutte le cose contro la violenza sulle donne, mi vuoi prendere in castagna, eh? Allora diciamo che l’altra faccia della medaglia, quella maschile, potrebbe essere La stanza dei passi perduti, piangere sull’amore perso. Oppure affrontare, coltello alla mano, non già la tua morosa, ma l’uomo che te l’ha strappata (bello, questo machismo, notare che non è la donna che se ne va, ma l’uomo che te la strappa: siamo ancora al tempo delle caverne, con un colpo di clava in testa te la porta via).
Ma se non fosse un uomo che te la strappa, se fosse lei a essere di facili costumi, allora l’alternativa dovrebbe essere la disperazione solitaria, attaccato al collo della bottiglia. O un suicidio al tramonto contro il sole che sbava a occidente eccetera eccetera.

Tango, sesso e cioccolato: in Memoriale non ti sei certo tirato indietro, col piacere! Confessa: volevi farci andare in black out?

Be’, spero di esserci riuscito.

Lucinda che ascolta, Lucinda che guarda: attraverso le azioni codificate del corteggiamento tanguero, la milonga di Del segreto amor è il palcoscenico di un amore impossibile. Ce ne parli? 

È una storia quasi vera. Dico quasi perché nella creazione tutto è sempre un quasi. Ho un’amica che canta e ha avuto una breve relazione con un’altra ragazza che poi si sarebbe sposata. Questa è la storia. Tutto il resto è creazione. Ho voluto scrivere questo brano come un omaggio al loro amore segreto e impossibile.



E allora, se questa intervista vi ha incuriosito, ecco tutti i riferimenti per acquistare Di lama e d'ocarina e seguire il lavoro di Francesco Scarrone:
  • la pagina ufficiale del libro, da cui si può acquistare online (ehi, sono solo 12 euro e 50, pensate ai regali di natale!),
  • la pagina Facebook del libro, seguita direttamente da Francesco, con tutte le date degli spettacoli del Più grande tanguero della pampa.
Mi raccomando. Che tiene figli piccoli e a natale siamo tutti più buoni.

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